C’era una volta un regno…anzi una colonia, e poi ancora un impero, che oggi è la Repubblica Federale d’Etiopia.
Uno dei paesi che fanno parte del Corno d’Africa, la penisola che dal continente africano si affaccia sull’Oceano Indiano e il Golfo di Aden.
L’Etiopia però non ha sbocchi sul mare, è come se fosse rivolta tutta verso se stessa e concentrata sui grandi altopiani e le montagne tagliate dalla Great Rift Valley: più di un milione di kilometri quadrati caratterizzati da una ricchissima varietà di rilievi e dagli ambienti che questi determinano.
Clima, temperature, precipitazioni, tipi di suolo e vegetazione, abitudini delle popolazioni locali e religioni: l’Etiopia è ricchissima di diversità, e biodiversità.
Tanto da possedere nella regione dell’Oromia, nella parte orientale del paese, l’unica popolazione di cavalli selvatici dell’Africa orientale: i cavalli del Kundudo, che prendono il nome dall’amba (montagna dalla cima piatta, nella lingua etiope) su cui vivono isolati da secoli.
Meno celebri dei loro colleghi della Namibia, i cavalli del Kundudo sono stati praticamente dimenticati dalla storia e dal resto del mondo fino al 2008, quando una spedizione del ricercatore etiope Effa Delesa Kefena. arrivò sul loro territorio.
Appena in tempo, visto che oramai si sono ridotti ad un numero così esiguo (30 esemplari censiti nel 2022) da potersi considerare virtualmente estinti.
Ma non ancora sconfitti: perché i Kundudo continuano a resistere, nonostante tutto.
Nonostante il clima impietoso ed estremo, la scarsità di cibo, il prelievo di puledri da parte delle popolazioni locali per gli usi agricoli e di trasporto, la predazione da parte di leoni e ghepardi: loro resistono pazientemente, coraggiosamente, senza mai darsi per vinti.
Non per niente la loro origine, secondo gli anziani etiopi che abitano quella zona, deriverebbe dai cavalli degli eserciti che qui tra il 1528 e il 1560 combatterono la guerra tra i musulmani di Ahmed Gragn e i cristiani di Atse Lebna Dengel, Re d’Etiopia della dinastia dei Salomonidi.

Secondo queste fonti orali, la posizione strategica del Kondudo permetteva di controllare molto bene il territorio attorno e i movimenti degli eventuali nemici in arrivo.
I cavalli selvatici di oggi sono quindi ritenuti i discendenti di quelli Abissini, con cui hanno molte affinità, che erano in forza agli eserciti che lì stazionarono per tanto tempo.
L’area che costituisce il loro habitat è di soli 13 ettari, per cui il loro numero è forzatamente limitato dal poco cibo a disposizione: l’acqua invece è sempre assicurata da una fonte che non si asciuga mai, nemmeno durante i periodi più caldi.
Anche la forte consanguineità è un problema per loro e quelli che vengono addomesticati dagli abitanti locali, poco pratici nella gestione dei cavalli, non hanno vita facile. Sono sottoposti a lavori gravosi troppo presto e questo ne pregiudica gravemente le prospettiva di vita.
Curioso che tradizionalmente siano prelevati dal branco durante la stagione della mietitura per trebbiare i cereali, e che questo permetta loro di profittare di un po’ di cibo in più visto che vengono lasciati mangiare un po’ di fieno durante il lavoro.
Esattamente come succedeva in Sardegna con quelli della Giara e del Sarcidano, e anche in Camargue.
Rimane nei ricordi di questa gente l’esemplare che fu catturano dal futuro imperatore Haile Selassie I quando aveva 10 anni, con l’aiuto di uno zio.

L’ultimo Imperatore d’Etiopia, Hailé Selassie I, (1892-1975) a cavallo nel 1936
L’autorità etiope per la conservazione della biodiversità aveva progettato di trasformare il loro territorio in una riserva che potesse attirare turisti.
I cavalli selvaggi del Kondudo potrebbero così essere una delle risorse per creare un nuovo indotto economico positivo per la regione grazie all’horse-watching.
Siamo grati al grande lavoro di ricerca fatto dal professor Kefena Effa dell’Ethiopian Agricultural Transformation Institute e dalla sua equipe, Morphological diversities and ecozonesof Ethiopian horse populations, da cui abbiamo tratto a piene mani.
E al geologo italiano Mauro Puddu, che ce lo ha fatto scoprire.
Gli invidiamo comunque l’esperienza sul campo: durante una delle spedizioni in Etiopia a cui ha partecipato anni addietro, lui e i colleghi hanno raggiunto il luogo che dovevano studiare proprio a cavallo.
Anche oggi, senza questi soggetti capaci di vivere e lavorare in condizioni molto difficili certe località di quel paese non si riuscirebbero a raggiungere.
Un paese che noi conosciamo così poco e così male, nonostante in passato ci fossimo arrogati il diritto di farne una colonia, e che sta attraversando di nuovo momenti difficili.
A proposito, nel caso vi venisse il dubbio: no, il cavallo grigio di Amedeo Guillet, Sandor non era un cavallo etiope. Era un Berbero che proveniva dalla Tunisia.
Nel caso invece il dubbio non vi fosse venuto, qui la loro storia: una di quelle collegate al nostro periodo coloniale che non ci costringe ad arrossire.

Amedeo Guillet, su Sandor, e uno dei suoi Ascari